Premessa

Le riflessioni riportate nel presente scritto sono il frutto di anni di lavoro passati sul Tatami che hanno cambiato il mio approccio alla vita. Sicuramente non sono io quello che deve fornire risposte, dare definizioni, costruire teoremi. Pertanto, mi limiterò ad analizzare il mio percorso di vita in questi ventidue anni nei quali mi sono confrontato con un altro modo di essere e soprattutto con un approccio al vivere.

E’ mia convinzione che nella crescita di ogni individuo l’ambiente esterno e le sollecitazioni culturali, intese nella loro più ampia accezione, condizionano la psiche di ogni uno e quindi il suo essere, creando una sorta di bagaglio culturale – emotivo a cui si attinge. Mi sembra quindi basilare partire da questo presupposto per intrecciare un discorso abbasta complesso che ci porta alla formazione del nostro essere, del nostro credo, delle nostre certezze, e quindi, la creazione della nostra personalità che inevitabilmente sfocia nella gestione dei nostri atteggiamenti rispetto alle sollecitazioni di tutti i giorni. E’ chiaro quindi come il background culturale condizioni i nostri atteggiamenti e il modo di affrontare le situazioni. In breve Gestione dello Ego.

Ho quindi diviso il lavoro cercando di comprendere quale sia la concezione del Ego per l’Occidente e quale quella per lo Oriente che gioco forza si esprime e palesa in modo chiaro ed inequivocabile in tutte le attività umane ivi comprese le arti marziali. Partiamo dalla concezione occidentale:

Articolo 1

L’Ego è l’occidente

Ma che cosa è l’Ego? I tentativi di spiegazione sono vari di seguito riporto gli approcci più significativi che si rapportano con le ricerche scientifiche proposte dalla psicologia e da altre branche che studiano il comportamento umano.

La psicoanalisi ha studiato il comportamento delle genti d’occidente, fornendo spiegazioni e teorie scientifiche . Lo slogan adottato è stato: fiducia in se stessi (ricordiamoci questo slogan).

Intanto cerchiamo di capire significato psicologico dell’ego

La parola Ego deriva dal latino e significa letteralmente “io”, per cui rappresenta generalmente la propria persona e la coscienza di essere chi siamo. Si tratta di un termine di uso psicoanalitico: l’ego costituisce una delle tre topiche con le quali Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, divideva le funzioni psichiche, Es Ego e Super-Ego. Secondo questa divisione, l’Es è l’istinto, l’Ego (Io) è la dimensione cosciente e razionale della mente, mentre il Super Ego (Super Io) è l’istanza psichica che controlla il comportamento morale e i doveri. L’Io cercherebbe di bilanciarsi costantemente fra le pressioni del Super Io e quelle dell’Es, che comprende desideri e paure inconsce.

Sempre secondo la psicoanalisi classica, un sano bilanciamento dovrebbe poggiarsi maggiormente sui precetti del Super Ego, e quindi su regole e norme apprese. Altre teorie psicologiche, ad esempio quella proposta da Carl Gustav Jung, si discostano da questa interpretazione, preferendo parlare del , ovvero della psiche totale, che comprende l’Io-coscienza e l’inconscio. Questa proposta potrebbe essere considerata più corretta, poiché non pone L’Ego o Io al centro della psiche, ma lo considera come facente parte di un tutto più vasto, nel quale un ruolo preponderante per il nostro funzionamento psichico è attribuito all’inconscio.

Ma come si forma l’Ego?

Altra questione è legata al dove si forma l’ego e quindi se sia frutto di una elaborazione proveniente dal cervello.

In effetti sembra che Il termine ego coincide con una funzione psichica; detto questo, esiste una zona cerebrale espressamente dedicata a tale funzione? Alcuni ricercatori di neuroscienze credono di sì ed hanno osservato una connessione fra l’attività mentale autoreferenziale e la corteccia prefrontale mediale, che si trova nella parte anteriore del lobo frontale. Esisterebbe quindi una zona del cervello che si attiva primariamente quando ci riferiamo al nostro Ego con parole e pensieri. in ogni caso,la naturale sede dell’Ego o io cosciente si trova nella neocorteccia, la zona di più recente sviluppo del cervello. Il cervello antico è invece quello che si “occupa” degli istinti e dei bisogni primari dell’uomo: non sorprende pertanto che la civiltà contemporanea spesso esalti il primo cervello (e quindi la razionalità) a scapito del secondo: per questo si parla spesso di Ipertrofia dell’Io, ovvero dell’importanza eccessiva che spesso si attribuisce a questa finzione, relegando sullo sfondo emozioni e istinti. Ricordiamo questa piccola analisi che potrà tornarci utile nel proseguo del discorso.

Nel frattempo bisogna anche evidenziare alcune patologie legate alla gestione dell’ego:

Ego ha tanti “figli”…

In ambito psicologico possiamo poi distinguere altri termini derivanti dalla parola Ego:

  • Ego-sintonia: stato in cui la persona si sente in armonia con i propri sintomi psicologici e non li riconosce come un problema

  • Ego-distonia: stato in cui la persona prova profonda sofferenza rispetto ai propri sintomi psicologici e non li accetta

  • Egoismo: atteggiamento tipico di persone che si preoccupano solo di se stesse, dei propri bisogni e dei propri vantaggi, e che si rifiutano di condividere con gli altri i propri averi

  • Egocentrismo: atteggiamento tipico di persone che riferiscono tutto a se stessi, mettendosi al centro dell’attenzione esterna e non considerando i punti di vista di altre persone.

  • Egotismo: atteggiamento tipico di persone che pensano esclusivamente a sé e alle proprie caratteristiche all’insegna di un esagerato compiacimento narcisistico di se stessi come di persone dotate di qualità superiori agli altri

Narcisismo: l’ipertrofia dell’ego

In termini clinici, il disturbo più particolare che riguarda la sfera dell’io è il disturbo narcisistico di personalità. Questa condizione psicologica è caratterizzata dall’esagerazione in positivo di ogni aspetto legato all’ego ed è individuabile attraverso i seguenti sintomi: eccessivo senso di importanza personale, fantasie di successo, bellezza e potere, richieste di ammirazione e aspettative di vantaggi personali, incapacità di riconoscere il punto di vista altrui, elevata invidia, arroganza e presunzione. In generale, quindi, il narcisismo si caratterizza dal senso di grandiosità che la persona percepisce verso se stesso, una grandiosità che appare slegata dalle effettive qualità e meriti di una persona.

Conclusioni

Come già evidenziato in premessa, l’attuale concezione dell’ego nel mondo occidentale è legata molto di più alla propria auto celebrazione che al proprio essere ma ancor di più legato ad una società pseudo liberale che persegue il benessere sotto una forma effimera rappresentato da un riconoscimento sociale legato sempre di più all’aspetto economico.

A sostegno di quanto affermato vi sono le teorie socio / psicologiche ed in Particolare quella dei bisogni ; Nel 1954 lo psicologo Abraham Maslow propose un modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una “gerarchia di bisogni”, cioè una serie di “bisogni” disposti gerarchicamente in base alla quale la soddisfazione dei bisogni più elementari è la condizione per fare emergere i bisogni di ordine superiore.
Alla base della piramide ci sono i
bisogni essenziali alla sopravvivenza mentre salendo verso il vertice si incontrano i bisogni più immateriali.

Il tutto meglio espresso nella famosa piramide di Maslow

 

Partendo dalla base della Piramide Motivazionale (o dei Bisogni) ci sono:

  • i bisogni FISIOLOGICI: fame, sete, sonno, termoregolazione, ecc. Sono i bisogni connessi alla sopravvivenza fisica dell’individuo. Sono i primi a dover essere soddisfatti a causa dell’istinto di autoconservazione;

  • i bisogni di SICUREZZA: protezione, tranquillità, prevedibilità, soppressione preoccupazioni e ansie, ecc. Devono garantire all’individuo protezione e tranquillità;

  • i bisogni di APPARTENENZA: essere amato e amare, far parte di un gruppo, cooperare, partecipare, ecc.; Questa categoria rappresenta l’aspirazione di ognuno di noi a essere un elemento della comunità;

  • i bisogni di STIMA: essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc. L’individuo vuole sentirsi competente e produttivo;

  • i bisogni di AUTOREALIZZAZIONE: realizzare la propria identità in base ad aspettative e potenzialità, occupare un ruolo sociale, ecc. Si tratta dell’aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere sfruttando le nostre facoltà mentali e fisiche.

Mentre i bisogni fondamentali, una volta soddisfatti tendono a non ripresentarsi, i bisogni sociali e relazionali tendono a rinascere con nuovi e più ambiziosi obiettivi da raggiungere.
Ne consegue che l’insoddisfazione, sia sul lavoro, sia nella vita pubblica e privata, è un fenomeno molto diffuso che può trovare una sua causa nella mancata realizzazione delle proprie potenzialità. Per Maslow, infatti, l’autorealizzazione richiede una serie di caratteristiche di personalità, competenze sociali e capacità tecniche.

Il modello di Maslow è infatti fortemente centrato sul meccanismo di autodeterminazione dell’individuo, facendo risalire le spinte motivazionali esclusivamente a fattori interni, ignorando l’interazione tra l’individuo e l’ambiente esterno in qualche modo si evidenzia un percorso di crescita legato all’accrescimento del proprio EGO.
Ritengo si possa affermare che la società occidentale fonda il proprio essere su aspetti troppo individualisti e troppo legati alla soddisfazione dei bisogni personali , per lo più non primari, quindi è l’espressione del voler essere per apparire .

Articolo 3

L’ EGO E L ORIENTE

premessa

Secondo tutte le tradizioni sapienziali di oriente e occidente, uno dei problemi che impediscono l’evoluzione dell’uomo e la sua autentica realizzazione è proprio l’Ego. Quanto più gli attribuiamo importanza, tanto più ci distanziamo da quello che siamo nel profondo. Non solo: questi antichi sistemi di pensiero, in particolare il Taoismo cinese, affermano che liberarsi dall’identità, e quindi dall’Ego è la condizione essenziale per accedere all’illuminazione. Tutte le pratiche di elevazione spirituale portano a considerazioni simili: l’Ego è un fardello che rende schiavi e di cui ci si deve liberare, per comprendere che la realtà è unica e che le divisioni al suo interno, ad esempio fra Io e non/Io, sono solo illusioni e i confini sono apparenze. La cosa sorprendente è che gli sviluppi della fisica contemporanea, dedita allo studio delle particelle subatomiche, portano a considerazioni simili: la materia è unica, dinamica e fluisce perennemente come in una danza di continui mutamenti. Anche l’Ego, che viene spesso percepito come immutabile, è dunque tutt’altro che statico: ricordarlo può essere utile per prendere le distanze da ogni atteggiamento che, rendendolo più grande o importante di quello che è, alla lunga produce solo sofferenza.

In Buona sostanza sembra di capire che i principi della religione orientale, ed in particolare il Taoismo, quasi rinnegano l’ego combattendolo e considerandolo una vera illusione. Da tali determinazioni non se ne esce con la sola affermazione dei principio bisogna in qualche modo comprendere quale sia in concreto l’approccio, ed è il caso di dire, filosofico, che l’orienta al rispetto alla vita.

Al fine di meglio comprendere quali le fondamentali differenze di concezione tra lo approccio orientale ed occidentale, mi è sembrato interessante riportare una sintesi della conferenza tenuta dall’Ambasciatore del Giappone presso la Santa Sede al Circolo di Roma in occasione dell’incontro intitolato “Culture and Religiosity in Japan”

La riflessione su natura e identità
segna la differenza tra la cultura e la religiosità orientale e occidentale

Due mondi a confronto sulla parola «Io»

Almeno tre elementi distinguono, dal punto di vista filosofico, il cristianesimo dalla religiosità nipponica e tre le parole-chiave: “ego”, “natura” e “assolutizzazione”. È ben netta la distinzione tra il concetto di ego buddhista-shintoista e quello monoteista occidentale. Anche il modo di concepire la natura in oriente è sostanzialmente diverso da quello occidentale: per i giapponesi la natura è divina e da riverire, sentimento non condiviso dagli occidentali. In terzo luogo, la mentalità religiosa dei giapponesi li porta a essere molto meno propensi degli occidentali a credere in valori assoluti.
Due parole sull’ego. In quale modo il concetto religioso tradizionale nipponico dell’ego si differenzia dal punto di vista occidentale? Semplificando, i buddhisti-shintoisti credono che, per raggiungere la vera libertà spirituale, ci si debba liberare da tutti i
karma o desideri dell’ego e da connessi interessi, dalla speranza e, in ultima istanza, dall’ego. L’espressione liberare/buttar via implica l’idea di rinuncia, di azzeramento. Parafrasiamo. La vera libertà o Realtà assoluta si raggiungono solo abbandonando l’ego, annullando la propria identità. L’uno e l’altra dovrebbero integrarsi conMadre natura.
Diversamente, le religioni monoteistiche sembrano basarsi sull’assunto che gli esseri umani siano divinità in “miniatura”
, creati a somiglianza dell’immagine divina. Il fine di avvicinarsi il più possibile alla divinità li porta a raffinare, a consolidare, a elevare fino alla perfezione l’ego. L’idea di disfarsi dell’ego neppure li sfiora.
In breve i monoteisti, tendendo a ingigantire se non a rendere perfetto
lego, sono massimalisti. Non occorre una particolare immaginazione per capire che l’ego così inteso è ritenuto inviolabile, sacro. Al contrario, i buddhisti-shintoisti, per raggiungere la Realtà Ultima puntano a minimizzare, ad azzerare l’ego. Sono minimalisti. Persino il concetto della propria dignità o onore va allontanato. Lungi dal considerarsi mini-divinità, non cercano la perfezione per meglio avvicinarsi alla divinità. Questo sarebbe infatti un desiderio, una

sorta di karma da rigettare. In termini di immagine, mi figuro l’ego occidentale come una palla grande, solida, aurea, da tenere sempre lucida. L’ego buddhista, invece, lo immagino simile all’aria o al gas, privo di forme, sostanza elastica e difficileimpossibile da lucidare.
Secondo la religiosità nipponica, l’essere umano non deve limitarsi solo a rinunciare al
karma, ai desideri e all’ego. Dovrebbe raggiungere il distacco dal pensiero logico.In fondo, per l’homo japonicus, la religiosità è quel regno da cui sono banditi anche il lògos, il pensiero logico, l’approccio deduttivo. In particolare per i seguaci del Buddhismo Zen tradizionale, persino valori opposti come Bene e Male vanno trascesi. Allo stadio spirituale più profondo della religiosità buddhista non ci sono più santità, verità, giustizia, male, bellezza. Persino la speranza, non più stampella a cui aggrapparsi, è da evitare. La libertà ultima si raggiunge grazie alla passività assoluta. I buddhisti credono che il distacco dai desideri sia necessario per guardare l’eternità. Nell’universo, non vi è nulla di eterno o di assoluto. Ogni essere è transitorio, in altri termini relativo. La Realtà ultima risiede nel “vuoto/nulla”, o nell’ambiguità.
Per introdurvi allo spirito della filosofia orientale che insegna il distacco dal
lògos, vorrei segnalarvi alcune espressioni proprie delBuddismo Zen: “Molti è uno. Uno è molti”; “Essere è non essere”; “Essere è Mu (nulla). Mu essere”; “La Realtà è Mu. Mu è la realtà”; “Ogni cosa viene dal Mu e viene assorbita nel Mu. Una volta distaccati dalla “visione della ragione”, si trascendono valori opposti come il bene e il male. La libertà ultima si ottiene grazie alla passività assoluta. Alla fine, lo spirito sarà come un albero o una pietra.


Altro elemento: la natura. Per gli occidentali, il divino è nel creatore, non nella natura da lui creata. Per i buddhisti-shintoisti, invece, la divinità risiede nella natura stessa, autogenerata. Assente il concetto di un creatore esterno all’universo, fuori dal nulla
. La divinità permea Madre natura e tutto quel che abbraccia, esseri umani, flora, rocce, fontane: ogni cosa. Per i buddhisti-shintoisti, non esiste realtà ultima fuori della natura.In altri termini, la divinità è intrinseca alla Natura stessa.
Per l’
homo japonicus, esseri umani e Natura sono intimamente uniti, inseparabili e non indipendenti. In quest’ottica, vorrei fare un commento usando un’espressione alla moda quale simbiosi o convivenza con la natura. Parole care agli ecologisti. A dire il vero questo termine veicola un concetto che, ai miei occhi, si tinge di arroganza, di antropocentrismo oserei dire, in quanto gli esseri umani si considerano alla pari con la natura. Secondo la religiosità nipponica tradizionale, gli esseri umani sono sottomessi alla natura. Lei dovrebbe essere la vera protagonista. A loro spetterebbe un ruolo umile, che non può aspirare a uno status di uguaglianza con la natura. L’uomo dovrebbe ascoltare con attenzione le voci della natura, accettandone con umiltà il dominio.


Vista su questo sfondo, in termini di amore e di rispetto verso la Natura o gli animali, la cultura giapponese appare particolarmente profonda e ricca. Per tradizione a tutt’oggi il popolo giapponese tratta con rispetto e con spirito religioso la Natura e gli animali. Significativamente
Higashiyama Kaii, noto paesaggista, ha detto una volta in una intervista televisiva di aver acquisito con la maturità la consapevolezza che la natura talvolta gli parli. Ne avverte la voce, ne percepisce il sentimento. In quell’occasione l’artista arrivò ad aggiungere che il suo lavoro di pittore della natura non è opera sua, ma della Natura stessa. In modo simile Munakata Shiko, famoso incisore su legno, dichiarò alla tv che quando con spirito calmo si dedicava al suo lavoro, si sentiva ispirato proprio dallo spirito del legno che andava incidendo. Così – aggiunse – il lavoro effettivo non era lui a compierlo, ma lo spirito del legno.


Enrique Gómez Carrillo, giornalista guatemalteco che da Parigi scriveva articoli per giornali latino-americani, nel 1912 scrisse
El Japón heroico y galante, libro destinato a essere per i successivi cinquant’anni una delle più popolari “guide” sul Giappone per i latinoamericani. Osservava: “I giapponesi amano la natura e la amano con animo religiosissimo. Sin dalla tenera età viene insegnato ai bambini come amare piante e insetti. Un amore che non è mera intesa o affetto. Sanno percepire il cuore melanconico dei ramoscelli, l’agonia delle piante, le sofferte lacrime lasciate scorrere dai grandi alberi. Ragazzi e ragazze vivono in stretta sintonia con le piante”. E ancora: “I temi poetici preferiti dai giapponesi attengono allo statoeffimero dell’essere, allo scorrere delle stagioni, al mormorio dei ruscelli, al sussurrio di fiori e di alberi, alle rocce ammantate di muschio e così via, piuttosto che alla gloria delle grandi gesta dell’uomo”. Le sue osservazioni mettono a fuoco con acutezza la cosmo-visione nipponica.
Siamo al terzo elemento: l’assolutizzazione dei valori. Alla luce della mentalità religiosa buddhista-shintoista appena abbozzata i giapponesi non amano aggrapparsi ad alcun valore assoluto
. Non credono né in una giustizia assoluta né in un male assoluto. Per loro ogni essere è, in sostanza, relativo; ogni valore, intendo valore positivo, è possibile finché non collide con altri valori. In caso di collisione, nessun particolare valore andrebbe considerato assoluto a spese degli altri. Perché? Semplicemente perché il senso più profondo della loro filosofia religiosa vuole che niente di assoluto esista nell’universo. Esiste solo l’impermanente. Diamo ora uno sguardo alla religiosità nipponica attraverso lo spettro del pre-moderno, moderno e post-moderno per chiederci: la civiltà giapponese contemporanea è post-moderna?


Nel passato – o almeno fino a tutto il XIX secolo – in ogni angolo del mondo si credeva che la modernizzazione delle nazioni si potesse realizzare solo in società dalla religiosità monoteistica cristiana. La rilevante modernizzazione del Giappone smonta questo assunto. Molte nazioni non cristiane si sono modernizzate, sull’esempio nipponico. Di conseguenza il loro emergere confuta il presunto legame tra modernizzazione e monoteismo. Appare chiaro che l’approccio politeistico, animista opanteista non comporta un regresso, se paragonato all’approccio monoteistico.
In particolare in Giappone, modernità e forme di approccio scientifico, tecnologico-razionale non solo coesistono con la mentalità panteistica e animista, considerata pre-moderna, ma ne escono rinvigorite, rafforzate. Insisto: molti prodotti nipponici di alta tecnologia sono programmati, disegnati, prodotti e commercializzati da persone che hanno più o meno la mentalità e la religiosità appena illustrata. Anzi, il livello di tecnologia o di qualità del design viene accresciuto dall’unione delle due diverse componenti: mentalità scientifica e mentalità animista.
Ad esempio, molte ditte nipponiche, quando si installano nuovi macchinari nei loro stabilimenti, invitano sacerdoti shintoisti a officiare cerimonie rituali, per auspicare un corretto funzionamento dei macchinari. Allo stesso modo, si compiono riti di ringraziamento verso lo spirito dei macchinari, prima di demolirli. Anche in campo edilizio, i costruttori si affidano a rituali shintoisti per impetrare la sicurezza dei futuri lavori con una cerimonia all’aria aperta.
In definitiva, nel Giappone contemporaneo, la mentalità pre-moderna panteistico-animista e la moderna alta tecnologia sono strettamente connesse. Si potrebbe definire la civiltà contemporanea nipponica un ibrido di pre-modernità e di modernità. Quindi assolutamente post-moderna!
Ho provato a concentrarmi sulla dimensione filosofica mettendo in luce le differenze tra oriente e occidente. Ritengo tuttavia che, a livello pratico, le due religiosità abbiano un certo terreno comune. Provo ad accennarlo.


Circa ottant’anni fa, Gandhi, uno dei padri fondatori dell’India moderna, inseriva il “commercio senza moralità” tra i sette peccati sociali. Gli altri sei da lui evidenziati erano:la politica senza principi, la ricchezza senza lavoro,il divertimento senza coscienza,la conoscenza senza carattere, la scienza senza moralità e la religione senza sacrificio. Anche il Papa e la Santa Sede in numerosi messaggi hanno ripetutamente condannato l’assenza di considerazioni morali da parte di molti leader del mondo degli affari.
In Giappone voci simili si sono alzate ad esempio, tra economisti di orientamento buddhista. Nelle ultime decadi, infatti, alcuni economisti hanno cominciato a utilizzare la filosofia buddhista in analisi di tipo economico, fondando la nuova disciplina chiamata economia buddhista. Ho il piacere di tracciare le linee del pensiero-base foggiante questa “nuova” economia.
Gli economisti buddhisti criticano in generale il neo-liberalismo che ha dominato le politiche economiche delle più grandi potenze mondiali nelle ultime decadi, aggravando la disuguaglianza economica, l’ingiustizia, il predominio assoluto del profitto, il deterioramento dell’ambiente a livello globale. Sebbene vi siano punti di vista divergenti tra gli economisti dalla visione buddhista, credo che tutti condividano otto concetti chiave come comune denominatore. Tali concetti sono: rispetto della vita, non-violenza,
chisoku (“sapersi accontentare”), kyousei (“capacità di convivere assieme”), semplicità, frugalità, altruismo, sostenibilità, rispetto della diversità.
Ad esempio, l’economista tedesco Ernest Friedrich Schumacher, uno dei padri fondatori di questa economia, autore del celebre
Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, mette particolarmente in luce chisoku e semplicità. Allo stesso modo Wangari Maathai, ambientalista keniota premio Nobel per la Pace 2004, crede in una filosofia simile a quella dell’economia buddhista. Nota per la sua attività a favore della Mottainai-Campaignche punta a far conoscere a livello internazionale le tre r (Ri-usa, Riduci e Ricicla), alcuni anni fa durante un suo soggiorno in Giappone l’ambientalista ebbe modo di conoscere il terminemottainai che in sostanza significa: “Mai gettare le cose minime in quanto anch’esse sono portatrici di valori intrinseci”.
A quel punto Wangari Maathai ebbe l’ispirazione di condurre una nuova campagna alla luce dell’approccio
mottainai ovvero delle tre “r” da diffondere in tutto il mondo. Secondo l’ambientalista, volendo proteggere e preservare l’ambiente, lo spirito di Mottainai è indispensabile. Inutile dire che questo spirito è in sintonia con il pensiero base dell’economia buddhista che si batte per politiche che portino al distacco da un approccio che privilegi solo lo sviluppo; distacco da una produzione basata sul petrolio; istituzione di un nuovo meccanismo internazionale che abolisca ogni forma di violenza. Potrebbe essere un’idea interessante organizzare un dialogo in questo campo tra economisti di orientamento sia buddhista sia cattolico.
In conclusione, semplifico il mio messaggio. Permettetemi di definire il buddhismo-shintoismo come un “sushi spirituale” e il cristianesimo come “spaghetti spirituali”. Da quanto ho detto, è evidente che il “sushi spirituale” e gli “spaghetti spirituali” hanno sapori distinti tra loro. Vorrei però aggiungere che entrambi sono squisiti. Fonte:
(©L’Osservatore Romano 14 agosto 2010

Ne deriva sostanzialmente una concezione eterea del Ego visto non come ricerca accanita per il soddisfacimento dei propri bisogni effimeri, (autorealizzazione nella piramide di Maslow) . Ma più tosto accettare gli eventi e gestirli.

Allora l‘ego è un’illusione?, come combatterlo ?

Anche in questo cosa per una migliore comprensione riporto un sermone di un Religioso Orientale

Zazen – Smettete di utilizzare troppo l’ego del Rev. Tenshin Nakano

In nessun periodo della quasi ottocentenaria storia del Buddismo Zen giapponese vi è mai stato un tempo in cui vi sono così tanti laici che praticano zazen come oggi. Una gran varietà di persone, giovani e anziani, uomini e donne, frequenta le sessioni di zazen presso il tempio di cui sono prete in capo. Le motivazioni per le quali vengono a praticare zazen variano da persona a persona, ma ognuna di loro è zelante nell’approccio alla pratica. Tra di esse, ci sono non poche persone che hanno un bagaglio di conoscenze maturate dalla regolare frequentazione di letture pubbliche e seminari di studi e che hanno un marcato interesse nello Zen. Tuttavia, spesso affermano che il loro intento principale nel venire a fare zazen è “un desiderio di sviluppare un forte senso di fiducia e pace mentale dentro di sé.”

Superfluo dire che ogni persona ha una differente visione della vita e un diverso sistema di valori. È ciò che io chiamo “metro di valutazione” della mente. L’ambiente in cui si è cresciuti, l’educazione ricevuta, l’ampia gamma di relazioni interpersonali mantenute e le interazioni che si sono realizzate con ogni e ciascuna cosa hanno dato forma al proprio modo di pensare, parlare e al modo di vivere la propria vita. Tutto ciò ha avuto una forte influenza sul vostro senso di umanità, sul vostro modo di vedere la vita e sull’insieme dei vostri valori.

Più è forte la volontà, più è forte la fame di apprendere di una persona, più essa cercherà di imparare dalla lettura di testi scritti da una varietà di persone e dall’ascolto di molti discorsi. Sicuramente, ampliare la mente e approfondire la propria conoscenza tramite la lettura e l’ascolto è importante. Tuttavia, è anche importante notare che leggere e ascoltare in modo errato – cioè, utilizzando troppo come parametro di giudizio la propria mente mentre si leggono o si ascoltano le parole di altri – significa che fate solo e sempre in modo di leggere o di ascoltare in maniera tale da continuare a chiedervi se ciò che vi viene detto vi piace o se si adatta o meno a voi. Ma questo in effetti non è imparare. Anche quando cercate di imparare, tutto ciò a cui serve è rendervi ancor più convinti dei vostri punti di vista tendenziosi e del vostro senso dell’ego. Se vi aggrappate troppo al vostro ego, non sarete in grado di accettare le differenze di opinione. In alcune situazioni, noi umani arriviamo a permettere a tale attaccamento di causare conflitti, a volte portandoci fino alla guerra totale.

Nello Shōbōgenzō Zuimonki in cui spiegava a fondo ai suoi discepoli come praticare la via del Buddha, Dōgen Zenji, fondatore del Daihonzan Eiheiji, li ammoniva fermamente contro tali azioni.

Tuttavia gli studenti oggi si attaccano alle loro menti discriminanti. Il loro pensiero si basa sul loro punto di vista personale che Buddha debba essere in un modo o in un altro; se va contro le loro idee, dicono che il Buddha non può essere in quel modo. Siccome hanno un tale atteggiamento e vagano qui e là nella confusione, andando in cerca di ciò che è conforme ai loro preconcetti, pochi di loro possono fare qualche progresso sulla via di Buddha.

Vi sono vari problemi nella vita che non possono assolutamente essere risolti con la visione della vita e l’insieme di valori sui quali ci siamo finora basati come fondamento. Questo è definitivamente vero per problemi che riguardano la nascita, l’età avanzata, la malattia e la morte.

Circa 2.500 anni fa lo stesso Buddha rinunciò al suo rango di principe e abbandonò una vita cui non mancava nulla dal punto di vista materiale per lasciare il palazzo alla ricerca della pratica come rinunciante nella speranza di risolvere quei problemi legati alla vita. Vi erano molte religioni nel luogo di nascita di Buddha, in India. Vi erano anche due tipologie principali di pratiche per risvegliarsi alla verità: la concentrazione meditativa e l’ascetismo.

Gautama, così era conosciuto prima del risveglio, inizialmente si esercitò nella tecnica della meditazione sotto la guida di due saggi. Ogni volta, subito raggiungeva uno stato superiore a quello del maestro. Tuttavia, non trovava soddisfazione in questo. Per successivi sei anni mise in pratica una serie di austerità. A quel tempo, la ragione per praticare tali mortificazioni si basava sul dualismo di mente e corpo. Si pensava che sottoporre il corpo a prove dolorose incredibili potesse causare la liberazione dello spirito dalle trappole e dall’influenza del corpo per apparire nella sua forma più pura e originale. Questo veniva visto come illuminazione spirituale. Gautama fermava il respiro, non mangiava, restava in piedi dalla mattina alla notte, effettuava abluzioni tre volte dal giorno alla notte – si sottoponeva a ogni concepibile forma di mortificazione, e dopo averlo fatto diceva “Nessuno prima di me, qui con me o dopo di me sarà in grado di sottoporsi a mortificazioni quanto me”. Tuttavia, anche dopo aver continuato a mettere in pratica tali severe austerità, non riusciva a raggiungere la più alta forma di illuminazione.

Dopo sei anni di intensa pratica, Gautama comprese di non essere in grado di raggiungere i suoi ideali recando danni al proprio corpo con mortificazioni estreme, e quindi le abbandonò. Bagnò il suo corpo sporco nel fiume Niranjan e recuperò le forze accettando latte e budino di riso ricco di nutrimento da una giovane donna chiamata Sujata. Quindi si sedette sotto un fico sacro (ficus religiosus) in un luogo poi conosciuto come Bodhgaya dove praticò zazen guidato dai suoi stessi pensieri ed esperienze. Per sette giorni e sette notti rimase in uno stato di zazen, e all’alba dell’ottavo giorno si risvegliò alla verità e divenne il Buddha (il Risvegliato).

Praticare zazen significa esercitare se stessi per mantenere i criteri del proprio io sotto controllo e praticare lo stile di vita del Buddha. Dōgen Zenji lo ha indicato come “lanciarsi nella casa del Buddha.”

Il Buddha insegnò che la causa madre della sofferenza e della confusione degli uomini è l’avidyā. Per Avidyā s’intende il fatto di ignorare di aver perso di vista la verità. In altre parole, avidyā significa non essere in grado di vedere le cose come sono realmente. La causa del non essere in grado di farlo è che si utilizza troppo l’ego – cioè il criterio della propria mente egocentrica – per vedere la realtà.

Ciò potrebbe essere paragonato al provare a riempire con l’acqua dell’oceano della verità un contenitore (il pensiero) che ha tanti fori – tentando continuamente di tirare su con un mestolo l’acqua della verità con questo contenitore. Un recipiente bucato non tratterrà mai l’acqua. Quindi cosa dovremmo fare? La risposta a questa domanda risiede nel lasciare libero questo recipiente bucato e buttarlo nell’oceano. Facendo così il recipiente sarà riempito fino all’orlo con l’acqua dell’oceano della verità. Lasciare andare il nostro recipiente (pensiero) e gettarlo nell’oceano è ciò che si intende per lanciarsi nella casa del Buddha. In altre parole, significa smettere di utilizzare il proprio ego e farsi assorbire dallo zazen.

Il buddismo insegna che la mente e il corpo non sono due cose separate. Prima di tutto, raddrizzate la schiena e armonizzate la vostra postura ed il vostro respiro. Quando lo fate, non fatevi distrarre dai pensieri che compaiono nella vostra mente. Non siatene infastiditi. Lasciateli come sono e continuate ad armonizzare la vostra postura e il respiro. Quando così fate, la vostra mente si armonizza naturalmente e gradualmente.

È importante, quando si pratica zazen, non farlo con un senso di scopo nella mente – “Voglio essere più sano”, “Voglio rafforzare la mia mente”, “Voglio raggiungere l’illuminazione” e così via. Praticare zazen con questa impostazione mentale vi farà consumare dai pensieri e aggrappare al vostro ego quando invece dovreste lasciarli andare. Vi troverete a raggiungere queste cose in modo naturale senza desiderare nello specifico di farlo quando lascerete indietro per davvero il vostro ego e vi farete assorbire dallo zazen.

Moltissimi scienziati e medici ricercatori hanno verificato che lo zazen e altre forme di meditazione influenzano massivamente la produzione di endorfine nel cervello, insieme alle onde alfa ed alla serotonina. La loro azione ha un notevole impatto sulla salute del cervello, del corpo e della mente.

Dato che non è mai tempo sprecato guardare oltre in cerca della conoscenza, perché non coltivare prima di tutto il campo della mente dentro di sé, per sviluppare una mente ricca? Ci auguriamo di cuore che troviate il giusto insegnante e che vi uniate a noi nella pratica dello zazen.

Per completezza cercherò di evidenziare anche quale sia la differenza sostanziale tra Zazen e Zen:

Zen e Zazen

La parola giapponese Zen deriva dal cinese ch’an e dal sanscrito dhyana, che significa non solo “meditazione” ma anche “tutto, insieme”. La traduzione occidentale poco si presta a descrivere il molteplice senso originario del termine, che usa il significato di meditazione più come il centro a cui ruota il vero e più completo significato. Lo stesso è per la pratica Zen: attraverso di essa il Maestro educa i discepoli ad una esperienza completa e profonda della vita, rinunciando alle distorsioni dell’ego ed ai filtri che assorbiamo inconsciamente dall’ambiente in cui viviamo; senza questi, noi possiamo sperimentare la realtà così com’è, fino ad arrivare a liberarci dalla sofferenza.

 

“…Versare tutta l’acqua di un recipiente così com’è in un altro…” Questa frase del M° Dogen (1200-1253) con grande chiarezza illustra il fulcro dell’educazione Zen e cioè alimentare continuamente il rapporto tra Maestro e discepolo, un contatto da persona a persona, da esperienza a esperienza al di là di astrattismi e speculazioni dialettiche.

 

Lo Zen è stata definita la religione dei Samurai. La pratica dello Zen conduceva il guerriero ad ottenere quello stato di Mushin (non-mente) essenziale all’efficacia nel combattimento. La continua consapevolezza del proprio essere nel momento presente in una ricerca di armonia ed efficienza sono alla base dell’educazione Zen.

 

Bodhidharma, principe indiano, si recò in Cina per diffondere il Buddhismoe si stabilì nel tempio di Shaolin. Quivi insegnò ai monaci la corretta meditazione Zazen riconducendoli all’originario insegnamento del Buddha e le tecniche da combattimento ed energetiche che ristabilirono il corretto equilibrio mente-corpo. Da allora la meditazione è sempre stata parte integrante, insostituibile, della pratica delle arti marziali cinesi e successivamente giapponesi. Il momento contemplativo diviene il fondamento insostituibile dell’azione, favorendo un’immediatezza nella comprensione attraverso il corpo del significato profondo del Budo e ristabilendo quella intuitività primordiale che l’uomo moderno ha perduto e che le Arti Marziali si prefiggono di recuperare. E’ famoso il detto : “Ken Zen Ichinyo”: il pugno (karate) e lo zen sono una cosa sola. Questa affermazione viene frequentemente fraintesa col significato che poiché il Karate e lo Zen hanno il medesimo sapore non è necessario praticare Zazen. In realtà l’affermazione “Ken zen Ichinyo” significa proprio il contrario: che la pratica dinamica del Karate al suo livello più alto si integra indissolubilmente con la stabile e rigorosa postura dello Zazen, creando una reciproca e fruttuosa influenza. “…L’Arte Marziale è lo spirito di chi con una semplice lancia può far fronte, in nome della dignità, all’arma più potente, più sofisticata. Questo è lo spirito dell’Arte Marziale e, in definitiva, dell’uomo… L’uomo che, con una semplice lancia, ben piantato sui suoi piedi, si pone davanti alla vita e alla Morte , incurante della propria vita e della propria morte, afferma la Grande Vita.”

Fonte: www.aikidoedintorni.com

L’ego e le arti marziali

Se sembra abbastanza chiaro l’approccio che le due civiltà hanno rispetto al ego, la gestione dello dell’argomento delle arti marziali risulta altre tanto complesso. La religione Orientale ha sempre tentato di combattere il prevalere della volontà di fare e di sopraffare rispetto alla necessità d’essere e di vivere il momento l’istante il presente codificando codici comportamentali . In Cina Nasceva il WUDE, ovvero, moralità attraverso il controllo della mente, mediante rispetto, virtù, coraggio, pazienza, umiltà, fiducia, perseveranza;

In Giappone il BUSHIDO, fatto di automiglioramento continuo, lealtà, cortesia, onore, rettitudine, benevolenza, verità.

Il Bushido può essere riassunto in sette principi fondamentali ai quali un samurai o un guerriero che ne segue gli insegnamenti, deve attenersi scrupolosamente:

  • , Gi: Onestà e Giustizia
    Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell’onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

  • , Yu: Eroico Coraggio
    Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.

  • , Jin: Compassione
    L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d’aiuto ai propri simili e se l’opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una. La compassione di un samurai va dimostrata soprattutto nei riguardi delle donne e dei fanciulli.

  • , Rei: Gentile Cortesia
    I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini. Il miglior combattimento è quello evitato.

  • , Makoto: Completa Sincerità
    Quando un Samurai esprime l’intenzione di compiere un’azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l’intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di 
    dare la parola né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.

  • 名誉, Meiyo: Onore
    Vi è un solo giudice dell’onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.

  • 忠義, Chugi: Dovere e Lealtà
    Per il Samurai compiere un’azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il Samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.

Nelle righe delle regole elencate sembra potersi leggere degli aspetti rilevanti in particolare:

Principio Etico: rispetto del bushido con l’automiglioramento, il rispetto degli altri, l’onore e affrontare il combattimento o l’allenamento senza, rabbia, senza paura e senza risentimento:

Assimilazione della capacità di saper vincere o di saper perdere: La ricerca della vittoria può essere motivo di stress.

Conclusioni

A ben vedere La questione Ego è presente sia nella cultura occidentale che in quella orientale e l’approccio e la gestione risultano completamente differenti. Conseguenzialmente, anche il rapporto sociale risulta condizionato dall’approccio culturale. Se in occidente si è distorto il concetto di Ego coltivando il se e l’Io, l’Oriente cerca il loro annullamento e nel tempo ha ricercato, quasi codificando, regole e principi (BUSHIDO; ZEN ZAZEN).

Nell’antichità, nei luoghi in cui le discipline marziali erano vissute come un’arte, la battaglia contro l’ego e la sua dissoluzione erano punti focali delle arti marziali. La figura del guerriero che affronta il destino senza ego è da sempre un’icona quasi mitologica.

E’ parere di chi scrive la crescita e gestione del NON EGO nelle arti Marziali si esplicita con un approccio non conflittuale ma relazionale. Se si considera una attacco, qualunque esso sia, e lo si vuole fermare con la stessa forza con cui viene lanciato, avremo la supremazia dell’EGO, che in modo conflittuale tende a rispondere ad una azione con una reazione molto più aggressiva ( approccio occidentale) . In modo del tutto antitetico; se l’attacco non viene fermato, ma l’energia di uke viene indirizzata in modo da poterlo gestire, allora si crea una relazione, che in qualche modo permette di controllare le emozioni, il modo esterno . Non accettando il confronto sul piano conflittuale, si diventa artisti nel controllare e si gestisce il proprio Ego.

Il lavoro svolto negli anni è stato proprio quella di cercare in continuazione una relazione non conflittuale con il nostro compagno, cercando di non dare sensazioni eccessivi tali da farlo bloccare, irrigidire, reagire. E’ chiaro che di fronte a detto principio, il lavoro deve diventare preciso . Bisogna evitare le manipolazioni, fare attenzione alle sensazioni che il corpo trasmette e gestire il movimenti con una sensibilità più corporale che mentale. Intendo dire che bisogna sentire le vibrazioni di chi attacca (sensibilità), capire i punti di squilibri, gestirlo tramite punti di contatto, creando degli squilibri e dei punti di vuoto dove accompagnare uke nella caduta o nella proiezione.

In buona sostanza la pratica delle arti marziali ed in particolare dell’Aikido ci riporta alla questione dello Ego. Chi si avvicina alle arti marziali non sempre è consapevole della necessita di mettere in calendario una modifica della concezione del proprio IO o del proprio SE. Ma con la costanza, il rispetto delle regole (BUSHIDO;ZEZEN,ZEN), la pratica , dopo qualche anno si inizia a percepire che qualcosa nel proprio modo di essere cambia . Tutto questo si ripercuote sia nella vita di tutti ni giorno che nel modo con il quale si pratica sul tatami. Inizialmente l’approccio è quello, di sconfiggere il proprio UKE con la forza, espressione dell’Ego che risulta essere parte dominate di noi stessi, col il tempo si comprende come la parte fondamentale del lavoro sia la relazione, il controllo e quindi, non la ricerca spasmodica di una proiezione. Questo sicuramente significa, cercare la Via che ci permetta di armonizzare noi stessi e con il mondo che ci circonda gestendo l’ Ego e trasformandolo in un asset positivo.

Ma combattere il proprio ego significa acquisire una sensibilità superiore, una capacità relazionale evidentemente al di sopra della media e la maturazione di una forma mentale non conflittuale ma relazionale. In senso pratico significherà indirizzare la forza di attacco del nostro avversario e non contrastarlo , cercando di controllare e non sopraffare uke in ogni modo. Sara forse l’applicazione di una serie continua di Kokiu nage che ci farà evitare eccessive manipolazioni . Se si può usare una metafora cara al mondo orientale e alle arti spirituali e di meditazione, si potrebbe dire che un corso d’acqua non lo si fermare, al massimo lo si gestisce.

Nel corso dell’esame mi impegnerò ad applicare i principi enunciati, utilizzando l’energia di uke per gestire relazione, controllo, considerando che la applicazione di un forma tecnica ( ikkyo, Nikkyo) è solo un evento casuale e non il fine.

Marcello Luciano